Kendrick Lamar

Kendrick Lamar

Nell’agosto del 1969, al Mount Morris Park, nel cuore di Harlem, si svolgeva l’Harlem Cultural Festival. La rassegna riuniva il meglio della musica black per celebrare un’intera cultura e – soprattutto – urlare “basta” in faccia alle disparità razziali. L’evento, raccontato nel documentario Summer of Soul, premiato agli Oscar 2022 e diretto dal batterista dei The Roots Ahmir “Questlove” Thompson, è stato espressione fortissima di una comunità che attraverso personaggi come Nina Simone, Stevie Wonder, Gladys Knight e B.B. King si identificava nello slogan “Black is Beautiful”, oggi tradotto in “Black Lives Matter”.

Bene: se c’è un artista contemporaneo in grado di rappresentare quelle voci con la stessa carica, è Kendrick Lamar, pronto a tornare in Italia il prossimo 23 giugno all’Ippodromo Snai di Milano, nell’ambito del Milano Summer Festival.

Otto anni sono infatti passati dall’ultima esibizione del rapper statunitense nel nostro Paese, datata 2014. Dopo la cancellazione del concerto al Rock in Roma 2020 causa pandemia, lo show è attesissimo per più di un motivo. Primo: Kendrick Lamar non è un rapper qualsiasi. Per stile, testi e modo di vivere la sua celebrità, lontano da gossip. Cambi di ritmo e flow, sperimentazioni metriche, basi innovative: la sua è una personalità dirompente sul palco, perfetta per chi è stato eletto esponente principale del conscious rap, ossia quell’hip-hop impegnato perché più attento a far riflettere su tematiche sociali importanti piuttosto che raccontare di serate a colpi di eccessi nei club.

Ed è proprio questo uno dei punti di forza dell’artista: la capacità di realizzare uno storytelling ricchissimo di idee e significati, di sottotesti politici che affondano radici profonde nelle strade della sua Compton, uno dei quartieri più violenti di Los Angeles. Proprio lì, per altro, si formarono gli N.W.A., alias Eazy-E, Dr. Dre e Ice Cube, gruppo che ha fatto la storia della cultura hip-hop perché responsabile dell’esplosione del cosiddetto “gangsta rap”: rime feroci su argomenti scomodi quali sesso, droga e vita criminale da strada, ma anche potente grido di protesta (Fuck the police) contro la violenza delle autorità, sfociata nelle sommosse a sfondo razziale che hanno sconvolto la città nel 1992.

La rabbia degli N.W.A., Lamar l’ha presa, rielaborata e trasformata sia in un’arma di attacco sia in un simbolo di speranza, lucente nella canzone Alright. Scelto per l’esibizione bomba al Super Bowl di quest’anno insieme a Dr Dre (appunto…), Snoop Dogg, Mary J. Blidge, Eminem e 50 Cent, il brano è contenuto nell’album To Pimp a Butterfly e denuncia senza nascondigli espressivi diversi episodi di brutalità della polizia ai danni di afroamericani. Alla fine, però, una visione ottimista giunge con il verso “We gon’ be alright”, lo stesso cantato nel corso del National Convening of the Movement for Black Lives, manifestazione tenutasi nel 2015 a Cleveland.

Alright, come l’intero To Pimp a Butterfly, è stato il trampolino per la consacrazione di Damn, disco che ha portato “K.Dot” a fare incetta di premi – tra cui un Pulitzer – e firmare la colonna sonora di Black Panther, cinecomic Marvel – con il compianto Chadwick Boseman – diventato anch’esso simbolo di lotta e forza di una comunità.

Il consiglio spassionato, dunque, per chi ancora non conoscesse Kendrick Lamar, è quello di allontanarsi dagli stereotipi più superficiali legati ai rapper e all’hip-hop e provare a sentire quello che ha da dire. Provare a capire come lo dice e perché. Fatto questo, la via per l’Ippodromo di San Siro, finalmente libero da restrizioni di capienza, sarà più chiara. E forse, in mezzo alla folla, oltre ad abbandonarci a una sana dose di divertimento, capiremo come quella coscienza che nel 1969 spingeva Harlem in un parco quando l’uomo muoveva i primi passi sulla luna, non fosse e non sia esclusiva di una “minoranza”, bensì una consapevolezza che coinvolgeva e coinvolge noi tutti.

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